Violenza sulle donne al tempo del Coronavirus
Per le donne maltrattate, costrette in casa, chiamare il 112 può essere l’unica possibilità. Ne abbiamo parlato con Anna Maghi la presidente di Erinna, storica Associazione che da anni gestisce un Centro Antiviolenza nel viterbese che pero’ ora ha chiuso.
di Paola Di Lazzaro
Anna Maghi è da venti anni la presidente di Erinna, storica Associazione di donne del Comune di Viterbo, che nel 1998 nasce con l’obiettivo di creare un punto di riferimento per le vittime di violenza. La abbiamo intervistata in questi giorni in cui, tra le tante emergenze legate al Covid19, da più parti si avanza la preoccupazione per le sorti delle donne maltrattate costrette in casa.
“Quando abbiamo iniziato” ci racconta Anna, “eravamo un gruppo che veniva da un lavoro comune sulla politica delle donne, a livello locale, nazionale e internazionale. È stato un lungo cammino. Siamo cresciute, ci siamo formate – continuiamo a farlo – abbiamo costruito relazioni con il territorio con pezzi istituzionali importanti, con i Centri e donne a livello nazionale e internazionale. Abbiamo costruito relazioni per portare percorsi di sensibilizzazione nelle scuole del nostro territorio. Abbiamo organizzato incontri per sensibilizzare, per riflettere, per contestare, per condividere temi di pesante attualità nella leggerezza”.
E poi, però, prima ha chiuso la Casa Rifugio e poi anche il Centro Antiviolenza.
Indifferenza e politiche discutibili ci hanno costrette a chiudere la Casa rifugio nell’aprile 2018 e l’8 marzo di quest’anno ha subito la stessa sorte il Centro antiviolenza.
Ora il Centro è chiuso alle nuove richieste di sostegno e, per le disposizioni governative, non ci possiamo recare in sede per seguire coloro che hanno attraversato il Centro fino alla data del 8 marzo e che sono in percorso di uscita dalla violenza.
Cosa sono e perché sono cosi importanti i Centri Antiviolenza?
I Centri Antiviolenza sono quei Centri gestiti da associazioni di donne femministe.
So che questo termine può infastidire perché è demonizzato costantemente, ma sono i gruppi di donne femministe che li hanno istituiti e che hanno condotto la battaglia per far riconoscere la violenza sulle donne come una violenza di genere e non una violenza tout court. Questi Centri funzionano nella relazione con le donne in difficoltà. Ormai – e va bene anche così – i Centri crescono come funghi più per il miraggio dei finanziamenti che per l’obiettivo di rendere ogni donna autodeterminata e indipendente. Per lavorare con le donne al fine di rendersi autodeterminate, anche le “operatrici” devono lavorare su di sé, e le operatrici sono in formazione permanente; la relazione con ogni donna che si incontra, attraverso il suo racconto e le dinamiche che la portano a subire, fa scoprire qualcosa di sé a chi la ascolta.
Questi Centri Antiviolenza non sono luoghi asettici, non sono uffici, non sono stanze per i colloqui; questi Centri sono i luoghi di incontro e di scambio, sono luoghi di rigenerazione, sono luoghi che rispettano il tempo che serve, sono luoghi privi di giudizio, sono luoghi di “ri/scoperta” di ciò che si era prima della violenza, sono luoghi per tentare di fare dei desideri degli obiettivi di percorso. I Centri antiviolenza sostengono la donna in tutto il suo viaggio per uscire dalla violenza. Nei Centri Antiviolenza ci sono semplicemente donne che incontrano altre donne, questo “semplicemente” è carico di tutto il sapere e la consapevolezza di essere donna, di cosa vuol dire avere un corpo di donna nella società in cui si vive, nella vita.
Questi Centri hanno il supporto di legali formate sulla specifica del genere, così come le psicoterapeute che collaborano con le operatrici.
A causa dell’emergenza Coronavirus molti Centri sono stati chiusi. E’ stata una scelta giusta, o comunque obbligata, o si poteva fare diversamente?
I Centri hanno seguito le sorti di tutti i luoghi in cui ci può essere un assembramento di persone, compresa la impossibilità di muoversi nel territorio.
Il nostro Centro è stato ucciso dalle istituzioni prima che dal coronavirus… può sembrare una battuta, ma non lo è. Noi abbiamo chiuso definitivamente il Centro alle nuove accoglienze l’8 marzo 2020, quel giorno abbiamo risposto alle ultime telefonate e non siamo più potute tornare per sistemare delle cose rispetto alla chiusura del Centro, è probabile che la segreteria telefonica sia piena, ma…
La chiusura dei Centri è stata una scelta obbligata come prima azione, poi ci si poteva organizzare. I Centri l’hanno fatto tenendo aperto il contatto telefonico. Il problema più grave è per le case rifugio; è necessaria la mobilità delle operatrici, è difficile far entrare un nuovo nucleo se non c’è prima la possibilità di far fare la quarantena. C’è stata la proposta del segretario delle Nazioni Unite di mettere un dispositivo di allarme nelle farmacie, va bene ma poi dove va questa donna? Siamo sempre ai proclami senza aver preparato il prima e il dopo.
Per confermare la superficialità delle dichiarazioni istituzionali, vorrei portare alla riflessione il messaggio televisivo che va in onda in questi giorni sul 1522 – numero governativo nazionale che dà indicazioni su dove rivolgersi in caso di necessità -: si rassicura la donna che chiamando il 1522 sarà accolta, avrà casa e lavoro. Sappiamo bene che la realtà non è questa. I Centri antiviolenza sono senza o con scarse risorse – il nostro Centro ha dovuto chiudere-, trovare lavoro è un problema per tutta la comunità e con quali mezzi una donna può trovare casa, pagare affitto e bollette? e fare la spesa? e vestire lei e i/le figli/e? etc. etc.
In questi giorni la rete D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, ha lanciato un allarme: dal 2 marzo al 5 aprile 2020 i centri antiviolenza che fanno capo alla rete sono stati contattati complessivamente da 2.867 donne, di cui 806 (28%) non si erano mai rivolte prima ai centri antiviolenza. Cosa ci raccontano questi numeri?
Raccontano di una situazione pesante con forte rischio di incolumità. La presenza di bambini e bambine possono frenare manifestazioni particolarmente aggressive, come possono invece essere vittime di soprusi quotidiani ai quali non possono sottrarsi. Sappiamo, dai contatti che abbiamo in rete, che diverse donne sono riuscite a chiamare per disdire i colloqui, anche solo telefonici, a causa della costante presenza del maltrattante.
Chi riesce telefona, ma si può suggerire solo di chiamare le Forze dell’Ordine. Nel nostro piccolo, dal 2 al 9 marzo –l’ultimo giorno che siamo state al Centro – abbiamo avuto quattro nuove chiamate, una risolta al telefono, una accolta con colloquio, le ultime due dirottate al numero della ASL perché il Centro ha chiuso alle nuove accoglienze. Abbiamo sostenuto un paio di colloqui con donne già in percorso di uscita dalla violenza; abbiamo avuto colloqui telefonici per organizzare l’appuntamento del gruppo “fiabe per adulte” dal 9 marzo in poi, ci siamo organizzate con un incontro settimanale via skype; la psicoterapeuta ha avuto gli ultimi colloqui per la costituzione del gruppo “genitorialità”.
In questa fase le donne che sono in pericolo come possono chiedere aiuto?
Credo che sia problematico. Non vorrei, ma immagino che il “lui” in questione possa aver sottratto il cellulare. Le donne però hanno risorse, anche se soffocate e nascoste. Voglio pensare che in questa fase riescano a comporre il 112.
A chi pensa che chiamare la polizia non serve a niente che risponde?
È l’unica cosa da fare; avere l’opportunità di accedere ad un Centro antiviolenza – quando alle donne viene indicato dalle Forze dell’Ordine – può preservare da errori che nella paura e nella confusione sono facili da commettere; quello più facile in cui incorrere è scappare portando con sé i bimbi e le bimbe senza denunciare che si è in una situazione di pericolo.
Anche al di là dell’emergenza Coronavirus, quello del femminicidio e della violenza contro le donne è un fenomeno strutturale globale. I numeri di femminicidi rimangono pressoché costanti negli anni. E questo nonostante il dibattito sia fortemente aumentato così come gli interventi legislativi. Come mai? Cosa si potrebbe fare e non si è ancora fatto?
Perché non è con la legge – anche se è uno strumento irrinunciabile – che si può fermare un costume culturale legittimato e tollerato dalla società – “tra moglie e marito non mettere il dito”, “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Ciò che accade in una coppia è un fatto privato e, sovente, dopo l’accadimento del “fatto” il giudizio cade sulla donna: “lo ha esasperato”, “non lo sa prendere”, “se lo merita perché si trucca”, “si veste provocante, vuole lavorare, non sa cucinare.. e altre centinaia di pecche ne potremmo aggiungere. Una società che svalorizza il corpo femminile, che spesso ridicolizza le capacità di una donna fa sì che la sua uccisione sia possibile, perché meno punibile.
Del resto in Italia il “delitto d’onore” è stato cancellato solo nel 1981. Anche i programmi televisivi, così frequenti e così insistenti, sulla violenza e sui femminicidi sono spesso utilizzati dal maltrattante come esempio terrorizzante della fine che potrebbe fare lei. Si dibatte, si fa un gran parlare, ma non c’è un vero sostegno alla donna che denuncia. Soddisfatto l’audience tutto resta come è. I tanti Centri che si limitano a offrire un/a legale e/o un/a psicologo/a, di fatto, lasciano le cose come sono.
Bisogna agire a livello culturale, fare formazione nelle scuole, alle diverse facoltà universitarie (medicina, giurisprudenza, comunicazione), al corpo insegnante, alle Forze dell’Ordine per sovvertire lo status quo.
Il Vaso di Pandora è un progetto che si rivolge a tutte le vittime di abusi e violenza. Per i sopravvissuti il primo passo è quello di uscire dall’isolamento in cui spesso ci si chiude per senso di colpa, o vergogna. Nella sua esperienza le donne quando iniziano a parlare?
La violenza alle donne ha una specificità. Sono diversi i fattori che zittiscono le donne, non ultimo il senso di sacrificio imparato. Spesso il silenzio è rotto dalla delusione, dal tradimento, anche dal tradimento del progetto d’amore. Spesso il silenzio si rompe quando la violenza viene rivolta ai/lle figli/e. Le donne sono coraggiose perché gestiscono una quotidianità terribile cercando di salvare se stesse e i/le figli/e. Le donne sono coraggiose a decidere di incontrare delle estranee e raccontare la loro intimità. Le donne sono coraggiose a scegliere un altro modo di vivere senza niente in mano.
Alle donne che sono, o sono state vittime di violenza e non hanno il coraggio di dirlo, cosa consiglia?
Di leggere, guardare, cercare altre donne che ce l’hanno fatta; di provare a entrare in un Centro antiviolenza – uno giusto! – di cercarlo nella rete dei Centri D.i.Re.; troverà un luogo dove avrà ascolto e non sarà obbligata a fare nulla che non sia pronta a fare. Spesso, molto spesso si vede una piccola luce in fondo al tunnel e spesso, molto spesso è sufficiente.