Gli Internal Working Models
Nella genesi degli atteggiamenti e stati mentali relativi all’attaccamento, rilevabili attraverso l’AAI, sembra sia in gioco la sintesi delle memorie di interazione con ciascuna figura di attaccamento, memorie che costituiscono gli Internal Working Models (IWM), cioè i Modelli Operativi Interni (MOI).
Secondo la teoria dell’attaccamento, l’organizzazione del comportamento di attaccamento corrisponde alla costruzione di strutture della conoscenza, i MOI, che da un lato rappresentano l’esperienza di sé-con-l’altro effettuata attraverso ripetute interazioni di attaccamento, e dall’altro attribuiscono valore e significato alle emozioni di attaccamento percepite in sé e nell’altro.
Il modello della figura di attaccamento deriva essenzialmente dalla qualità dell’esperienza con lei vissuta, ossia da quanto si sia dimostrata sensibile, disponibile, coerente, prevedibile e così via.
Nel concetto di MOI è implicito l’assunto della trasmissione intergenerazionale delle relazioni di attaccamento: ovvero la possibilità di trasmettere inconsapevolmente come genitori quelle sicurezze o insicurezza che abbiamo vissuto come figli.
Il modello operativo dell’io del bambino viene costruito in maniera complementare sulla base di quanto “egli stesso sia accettabile o inaccettabile agli occhi delle sue figure di attaccamento”.
La qualità dell’interazione tra il bambino e la figura di attaccamento viene quindi tradotta in una serie di rappresentazioni mentali che costituiscono la base delle future interazioni: ovvero quelli che possiamo dire schemi mentali che saranno una sorta di filo guida nelle nostre future e differenti relazioni interpersonali quando saremo adulti
Lo sviluppo cognitivo che conduce alla costruzione dei MOI è un tipico esempio di traduzione della conoscenza non dichiarativa (implicita) in conoscenza dichiarativa semantica.
Cosa si intende per conoscenza o memoria dichiarativa semantica?
La memoria dichiarativa comprende tutto ciò che può essere descritto consapevolmente, la componente semantica comprende quelle che possiamo definire le nostre conoscenza, il nostro bagaglio colturale: sappiamo che la capitale della Francia è Parigi ma non siamo in grado di dire con assoluta certezza quando lo abbiamo appreso
La memoria implicita del bambino, sintetizza progressivamente le sequenze interattive in cui la figura di attaccamento risponde alle sue emozioni di attaccamento, organizzandole in Rappresentazioni Generalizzate Delle Interazioni (RIG) (Stern 1985): in poche parole potremmo dire che registra come la figura di attaccamento risponde alle sue stesse risposte emotive.
Quando le RIG relative all’attaccamento, contenute nella memoria implicita, si confrontano con le nascenti capacità linguistiche del bambino, prendono forma le strutture semantiche della conoscenza, del tipo: “Piango, mamma viene” che attribuiscono significato e valore relazionale al proprio pianto.
Da queste strutture, derivano i grandi “temi narrativi” che caratterizzano i diversi pattern di attaccamento: influenzeranno in parte come saremo, come ci rappresenteremo e ci sentiremo nel corso della nostra vita e non solo nei nostri primi anni.
Vediamo adesso nel dettagli i modelli operativi interni di ciascun stile di attaccamento:
ATTACCAMENTO SICURO:
rappresentazione di sé come degno d’amore e dell’altro come degno di fiducia.
Il bambino con attaccamento sicuro ha una valutazione positiva dell’emozione di attaccamento in sé e negli altri. La rappresentazione, oltre che unitaria, è particolarmente coerente ed organizzata, perché tutte le emozioni di attaccamento provate sono valutate positivamente in quanto rispecchiate e convalidate da una figura di attaccamento disponibile ed affidabile.
ATTACCAMENTO INSICURO EVITANTE:
rappresentazione di sé come indegno dell’attenzione protettiva dell’altro, e dell’altro come indisponibile.
Il bambino con attaccamento evitante avrà una valutazione negativa dell’emozione di attaccamento in sé e negli altri, le emozioni di attaccamento non sono efficaci perché il genitore dice, ad esempio: “piangi, piangi che tanto io non ti prendo perché altrimenti diventi viziato”.
Il bambino impara a non piangere perché altrimenti il genitore andrà via subito (“io non ti disturbo, tu non andare via”). La strategia organizzata del bambino evitante per trattenere il genitore è quella di non disturbare. Imparare che bisogna non disturbare per non far allontanare la nostra figura di riferimento, imparare che si è poco amabili, che se stesso ed il prossimo sono poco affidabili, condizionerà il modo con cui nei primi anni di vita il bambino imparerà a costruire relazioni interpersonali. Il bambino impara a prevedere, in maniera possiamo dire malinconica, che verrà rifiutato.
ATTACCAMENTO INSICURO AMBIVALENTE:
ha una valutazione ambivalente dell’emozione di attaccamento in sé e negli altri.
Non sa se le altre persone servono o meno e avrà un genitore che quando piange gli dirà urlando: “basta non ce la faccio più”. Quindi la figura di attaccamento fonte di rassicurazione diventa anche quella che lo spaventa.
Probabilmente i suoi MOI conterranno informazioni discordanti, alcune relative ai momenti in cui il genitore ha risposto positivamente alle sue esigenze di attaccamento, e altre, di segno contrario, relative agli episodi in cui il genitore si è mostrato improvvisamente e imprevedibilmente indisponibile.
Nel caso del bambino ambivalente possiamo ipotizzare un MOI in qualche modo duplice, meno unitario e coerente di quello del bambino evitante (coerenza nella malinconica previsione del rifiuto) e di quello del bambino sicuro (coerenza nella sicurezza).
Da un lato ci sono basi per costruire una rappresentazione di sé come degno di attenzione, e dall’altro per costruire una simultanea rappresentazione opposta di sé come indegno di risposte benevole nei momenti di difficoltà.
Ci sarebbe dunque una fondamentale ambivalenza nelle rappresentazioni cognitive che sostengono il comportamento di attaccamento ambivalente. Il bambino con questo stile di attaccamento ha una rappresentazione di sé come costretto a esercitare continue pressioni emotive sull’altro per controllarne l’imprevedibilità, la disponibilità e l’intrusività.
ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO (D):
le indagini rivolte a definire gli antecedenti della disorganizzazione dell’attaccamento nel primo anno di vita hanno fino ad oggi identificato una forte correlazione con l’esistenza di lutti o altri traumi non elaborati e irrisolti nel genitore verso il quale il comportamento di attaccamento del bambino risulta disorganizzato.
I bambini con attaccamento disorganizzato verso un genitore, mostrano una sufficiente organizzazione dell’attaccamento verso l’altro genitore.
Sono state avanzate varie ipotesi per spiegare tale correlazione:
“il ricordo del trauma non risolto tende ad affiorare alla coscienza in modo frammentario e imprevedibile” quando ciò avviene mentre il genitore sta accudendo un bambino piccolo, sul volto del genitore stesso si manifesterebbero espressioni di paura di cui il bambino ha paura
Si crea così nel bambino un conflitto tra due sistemi motivazionali innati:
1. sistema dell’attaccamento che lo porta a cercare la vicinanza protettiva della figura di attaccamento ogni volta che si trova in pericolo;
2. sistema difensivo che lo obbliga a fuggire o ad immobilizzarsi di fronte ad uno stimolo che gli incute timore.
Ovviamente se la figura di attaccamento mostra un’espressione di paura in risposta ad un pericolo esterno percepibile anche dal bambino, il comportamento di attaccamento non si disorganizza in quanto non vi è alcuna incongruenza fra la funzione protettiva della figura di attaccamento verso il piccolo e la paura mostrata dalla figura di attaccamento: è normale anche per un adulto mostrare paura se si è di fronte ad un reale pericolo.
Il comportamento di attaccamento si disorganizza quando il genitore reagisce con paura alla rievocazione involontaria ed automatica di una personale memoria traumatica, assolutamente non percepibile dal bambino, che avviene mentre lo sta accudendo.
Il conflitto insolubile fra bisogno di vicinanza protettiva alla figura di attaccamento e il bisogno di allontanarsi dalla stessa (divenuta fonte di paura o di pericolo) può verificarsi con due modalità.
Nella più drammatica, la figura di attaccamento mentre accudisce il piccolo, diventa improvvisamente violenta verso il bambino a causa dei propri traumi non risolti.
Nella meno drammatica, la figura di attaccamento esprime paura mentre accudisce il figlio ma non diventa violenta.
Perché si produca la disorganizzazione dell’attaccamento, dunque, non è necessario che la figura di attaccamento incuta paura al bambino attraverso la violenza: il semplice fatto di mostrare paura con il linguaggio non verbale (espressione del volto) per un pericolo che il bambino non può percepire rende la figura di attaccamento stessa una fonte di paura, attivando così il conflitto fra sistema dell’attaccamento e altri sistemi motivazionali difensivi.
Per evidenziare il fatto che la paura espressa dalla figura di attaccamento vulnerabile ma non violenta, e la paura indotta attraverso l’aggressione di una figura di attaccamento, producono effetti simili, Main e Hesse hanno chiamato Frightened/Frightening (spaventato/incute paura) il genitore responsabile della disorganizzazione dell’attaccamento del bambino.
BIBLIOGRAFIA
Attili G . Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. RAFFAELLO CORTINA EDITORE. Anno: 2007
Bowlby J. Una base sicura- applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento CORTINA EDITORE. Anno: 1996
Liotti G., Farina B. Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. RAFFAELLO CORTINA EDITORE. Anno 2011
Main M., Hesse E. Attaccamento disorganizzato/disorientato nell’infanzia e stati mentali alterati nei genitori. In: Ammaniti M. e Stern D. (eds), Attaccamento e psicoanalisi. EDITORE LA TERZA. Anno 1992
Stern D. The Interpersonal World of the Infant: A View from Psychoanalysis and Development. BASIC BOOKS. Anno 1985