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Epitteto (V sec. a. C.) ha detto: “Ciò che distingue e preoccupa l’uomo non sono le cose in quanto tali, ma le sue opinioni e fantasie su di esse”.

Durante il corso della nostra esistenza può accadere purtroppo di fare esperienza, diretta o indiretta, di un incidente d’auto, di un disastro naturale, di un’aggressione, di una malattia debilitante. Essendo questi degli eventi che generano sofferenza e che hanno un grande impatto emotivo su di noi, è normale inizialmente sentirsi ad esempio disperati, spaventati tanto da rivivere alcuni fotogrammi dell’evento in modo intrusivo e non volontario. Oppure, fare ricorrenti sogni spiacevoli o cercare di evitare i ricordi o i luoghi dell’evento. Può essere altrettanto normale anche sentirsi in allarme, irritabili e avere problemi di concentrazione e di sonno. Se tutto ciò, però, dura più di un mese e comporta un disagio significativo a livello lavorativo e sociale, si parla di disturbo da stress post traumatico (PTSD).
A tutti noi capita di essere preoccupati: se si ha un esame importante all’università, se aspettiamo il risultato di approfondimenti diagnostici prescritti da un medico, o se un nostro caro è ammalato. Succede, però, che in alcune persone la preoccupazione, e l’ansia conseguente, diventino croniche, senza una situazione reale che le giustifichi, e che costituiscano quindi un problema che va diagnosticato e curato. In questo caso siamo in presenza di un disturbo d’ansia generalizzata (GAD), caratterizzato da ansia e preoccupazione eccessive che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, rispetto a una quantità di eventi o di attività, come ad esempio prestazioni lavorative o scolastiche.
La classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’ansia come un disturbo in cui vi è un’estrema ed eccessiva attenzione a una “minaccia anticipata” e definisce il PTSD come un disturbo che deriva dall’esposizione a uno o più “eventi orribili”; in entrambi i disturbi i sintomi comprendono apprensione, tensione motoria e iperattività autonomica.
Sia il GAD che il PTSD sono disturbi mentali comuni e molto diffusi che causano significativi esiti negativi per la salute e contribuiscono a gran parte del carico globale di malattia. Vi sono notevoli discrepanze nella qualità della vita tra le persone con diagnosi di ansia e/o PTSD e quelle a cui non viene diagnosticata una di queste, come un aumento degli anni vissuti con disabilità e una riduzione dell’aspettativa di vita. Inoltre, ci sono prove che suggeriscono che la presenza di un disturbo d’ansia o di PTSD aumenta la probabilità di comorbidità con altre gravi condizioni di salute, come il disturbo depressivo maggiore e il disturbo da uso di sostanze (WHO, 2018; Mughal et al., 2020).
Il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e il disturbo d’ansia generalizzata (GAD) sono due disturbi che possono presentarsi in comorbidità. Questo dato non è del tutto sorprendente dal momento che il PTSD in sé veniva considerato un disturbo d’ansia con manifestazioni eterogenee diverse da soggetto a soggetto.

Il Disturbo d’ansia generalizzata (GAD)

Il disturbo d’ansia generalizzata è piuttosto comune e va ben oltre quelle che sono le normali preoccupazioni della maggior parte delle persone. L’ansia di chi soffre di GAD è eccessiva, dilagante e particolarmente invalidante andando a compromettere il funzionamento della persona. La tendenza a preoccuparsi può essere presente fin dall’infanzia o dalla prima adolescenza. Il GAD viene definito come uno stato di preoccupazione eccessiva su persone o situazioni che persiste per almeno 6 mesi (APA, 2013).

L’ansia è qualcosa che la persona non sembra controllare e l’oggetto della preoccupazione spesso si sposta da un ambito a un altro. La preoccupazione alla fine assorbe molto del tempo quotidiano della persona lasciandole poco sollievo al punto da influenzarne le relazioni interpersonali e l’ambito lavorativo.

Per porre diagnosi di GAD, oltre all’ansia e alla preoccupazione, devono essere presenti almeno 3 dei seguenti sintomi cognitivi o fisici (APA, 2013):

  • Irrequietezza, o sentirsi tesi/tese, “con i nervi a fior di pelle”
  • Facile affaticamento
  • Difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria
  • Irritabilità
  • Tensione e dolore muscolare
  • Alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno, o sonno inquieto e insoddisfacente)

Nello specifico, la persona è in uno stato di perenne ipervigilanza psicofisiologica. Questo significa che il comportamento è frettoloso e impaziente, si ha un senso di pericolo costante e una forte irritabilità di fronte agli imprevisti. Può capitare, ad esempio, di non riuscire a tollerare che la propria figlia esca per andare a ballare perché, sapendola fuori casa, ci si immagina già una catastrofe. La mente è concentrata su temi di pericolo generico come la salute propria o altrui, il matrimonio, la situazione economica, il lavoro, la famiglia, le relazioni, i pericoli sociali. Oppure, può capitare di fare cento telefonate al medico per sapere subito l’esito dell’esame diagnostico perché non si può sopportare di scoprire all’improvviso di avere una malattia e, quindi, si deve essere preparati. Oppure ancora evitiamo di conversare con chi parla spesso dei propri problemi economici perché questo genererebbe uno stato di agitazione pensando che potrebbero capitare anche a noi e alla nostra famiglia. Queste preoccupazioni hanno alcune caratteristiche distintive:

  • sentiamo di non poterle controllare;
  • perdiamo la capacità di ragionare lucidamente valutando la situazione in maniera oggettiva;
  • siamo in uno stato continuo di ansia, tensione, apprensione;
  • immaginiamo scenari catastrofici che molto difficilmente si avvererebbero;
  • si succedono una dopo l’altra, come una catena.

Le persone che soffrono di GAD sono solite descriversi come sensibili, emotive, facilmente impressionabili, e quindi inclini alla preoccupazione. Trascorrono oltre la metà del tempo a preoccuparsi di eventi che non si verificheranno, quindi la tendenza a interpretare come minaccioso tutto ciò che accade è praticamente automatica. Ad esempio, di fronte ad un amico che chiede di incontrarla per parlare, la persona con GAD molto probabilmente penserà che si tratta di una cattiva notizia e non semplicemente di una piacevole chiacchierata. Alla luce di ciò ne consegue un notevole impatto sul corpo e quindi è possibile andare incontro a insonnia, tensione muscolare, nausea, vomito o diarrea, confusione mentale. Ma allora perché si ritiene utile preoccuparsi, visto il disagio che ne deriva? Alla base ci sono delle convinzioni per cui rimuginare possa servire a qualcosa, come ad esempio: “Se penso al peggio, sarò più pronto per affrontarlo”; “Preoccuparmi mi aiuta a tenere tutto sotto controllo”; “Preoccupandomi capirò cosa fare e come agire”; “La preoccupazione tiene a bada la mi ansia”; “Mi sentirei responsabile se smettessi di preoccuparmi e poi accadesse qualcosa di brutto”. Chiaramente tali convinzioni non fanno altro che accrescere la preoccupazione portando la persona a essere preoccupata per il solo fatto di preoccuparsi, cioè il timore è dato dalla preoccupazione stessa e si esprime con pensieri del tipo: “Sono in balia della mia mente”; “Se continuo a preoccuparmi impazzirò”; “Non riesco a smettere di preoccuparmi”.

Tutto questo bagaglio di convinzioni, se poggiato su un’alta emotività, può fare da trampolino di lancio per lo sviluppo di un’ansia cronica. Sicuramente l’ansia si manifesta in periodi di forte stress, momenti in cui ci viene richiesto uno sforzo in termini di adattamento e cambiamento come, ad esempio, prendere una decisione importante, cambiare lavoro, casa, affrontare un conflitto interpersonale, ecc., ma a volte succede che uno o più problemi superino la soglia normale di adattamento e inizino ad assumere l’aspetto di una forte minaccia. Ecco, quindi, che insorge l’ansia.

La relazione tra il PTSD e il GAD

Già anni fa (NIMH, 2016) si era visto che una persona su 6 con PTSD potesse sperimentare un GAD a un certo punto della vita. Inoltre la probabilità di sviluppare un GAD nei soggetti con PTSD è 6 volte più alta rispetto a quella della popolazione generale.

Sia il disturbo post traumatico da stress (PTSD) sia il disturbo d’ansia generalizzata (GAD) condividono un elevato livello di ansia o angoscia generale, ma solo il PTSD comporta ricordi persistenti e intrusivi basati sulla paura, a cui fa seguito un elevato senso di vulnerabilità personale.

Ad oggi, le ragioni della coesistenza tra i due disturbi non sono ancora propriamente chiare. Di certo sappiamo che il worry (preoccupazione/rimuginio) rappresenta un elemento in comune. Nello specifico la preoccupazione è una caratteristica cognitiva centrale dell’ansia, una strategia di coping cognitiva perseverativa per fronteggiare lo stato interno doloroso. Non è insolito sentire soggetti con PTSD che riferiscono che preoccuparsi di altri eventi o problematiche li distrae da quello che, invece, li angoscia di più. Rimuginare/preoccuparsi permette di mantenere le distanze dai pensieri e dalle emozioni che non sono in grado di fronteggiare, ma l’esito che ne deriva è negativo e quindi la persona sprofonda in una spirale che rapisce l’attenzione. In questo modo si resta concentrati su quanto di minaccioso viene percepito e le preoccupazioni, di conseguenza, si estendono ed estremizzano fino al punto in cui si ha la percezione di non riuscire più a controllare la mente e i pensieri, ostacolando la risoluzione efficace dei problemi (Sun et al., 2019).

Per attenuare l’ansia e/o la preoccupazione la persona mette in atto dei comportamenti che, in realtà, la mantiene e rinforza nel tempo:

  • Autorassicurazioni o richiesta ad altri di essere rassicurati;
  • Essere perfezionisti;
  • Evitare situazioni o eventi potenzialmente ansiogeni;
  • Rinviare;
  • Tentare di sopprime la preoccupazione.

Questi e altri comportamenti, così come la modalità di pensiero rimuginativo, possono ridursi imparando a modificare il modo di pensare e di reagire ai vari eventi della vita.

Trattamento

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di inquadrare il GAD. L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente proprio al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Una delle caratteristiche del GAD è che il pensiero ripetitivo negativo, ovvero il worry, viene percepito come difficile da controllare oppure porta il soggetto a fare valutazioni errate della realtà che alimentano le sue emozioni negative. Questa modalità di funzionamento viene definita Sindrome Cognitivo-Attentiva (cognitive attentional syndrome o CAS). La CAS consiste in rimuginio, fissazione dell’attenzione su stimoli pericolosi e strategie di coping disfunzionali.
La Terapia Metacognitiva ha, dunque, come obiettivo quello di rimuovere la CAS, e riportarla sotto il controllo cosciente. Mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso il controllo e la modulazione flessibile dell’attenzione.

La MCT è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia. Il trattamento che propone, infatti, si è dimostrato superiore ad altre psicoterapie, comprese quelle cognitivo-comportamentali (Nomann, Van Emmerik, Morina, 2014; Normann & Morina, 2018).

Riferimenti bibliografici

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  • Sun, X. et al. (2019). Worry and metacognitions as predictors of the development of anxiety and paranoia. Scientific Reports, 9:14723, doi: 10.1038/s41598-019-51280-z.
  • Wells, A., & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.
  • World Health Organization (2018). International Classification of Diseases for Mortality and Morbidity Statistics Eleventh Revision: ICD-11.

Sitografia

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