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Basta parole come raptus, amore, gelosia, passione, accostati ai femminicidi. Scrivere in maniera corretta di violenza sulle donne si può. Ecco come

MILANO - 02/09/2008 - MARINA COSI - GIORNALISTA - FOTO PADOVANI/NEWPRESS

Intervista a Marina Cosi, Presidente di Giulia – Giornaliste Unite Libere Autonome

a cura di Paola Di Lazzaro

 

Marina Così è una giornalista che nella sua lunga carriera è passata per numerose testate tra carta stampata e televisione, oltre che da sempre attiva anche nelle strutture sindacali di categoria, è stata vicesegretaria della FNSI, presidente del Fondo pensione complementare e ha coordinato la Commissione Pari Opportunità della Federazione. Da qualche anno in pensione Marina continua ad essere impegnata sulle questioni di genere – “da ex sessantottina, con il tema delle donne ho una consolidata familiarità” –“  ed è attualmente la presidente di “Giulia”, acronimo che sta per Giornaliste Unite Libere Autonome, associazione fondata nel 2012, con l’obiettivo di contrastare attraverso i giornali, ma anche nei giornali e nelle redazioni, gli stereotipi che colpiscono le donne e il modo di raccontarle.

 

Di recente, il 25 novembre, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, “Giulia” ha firmato assieme alle Cpo di Fnsi  Usigrai (sindacato giornalisti Rai) un manifesto d’intenti, il Manifesto di Venezia, con l’obiettivo di sensibilizzare tutti gli operatori dell’informazione ad adottare comportamenti professionali e soprattutto un linguaggio consapevole nei confronti del tema della violenza e del femminicidio. Come hanno reagito i colleghi, soprattutto gli uomini, a questa proposta?

La difficoltà, quando si fanno queste carte deontologiche, è che sembrano delle imposizioni, che non piacciono a nessuno figuriamoci a chi per mestiere fa il giornalista. Con “Giulia” abbiamo cercato di lavorare ad un progetto che partisse dalla condivisione dal basso, con l’idea di introdurre un diffuso cambiamento nel modo di raccontare la violenza sulle donne. Devo dire che un po’ per il mio carattere di vedere i bicchieri mezzi pieni, un po’ per la tenacia che ci connota come “Giulie”, un po’ perché davvero la sensibilità generale è cambiata su questi temi, abbiamo ottenuto molto in questi anni, promuovendo linguaggi, regolamenti ma soprattutto una diversa attenzione al tema anche, mi fa piacere dirlo, con il supporto di parecchi uomini.

 

Non credi, però,  che quando si leggono le cronache di donne ammazzate gli stereotipi non manchino e, soprattutto, si indugi ancora troppo spesso su termini fuorvianti come raptus, amore, gelosia, passione, accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento?

E’ verissimo, ma dobbiamo vedere anche i passi in avanti che sono stati fatti. Come, ad esempio, l’aver introdotto il tema del femminicidio e del linguaggio di genere nei corsi di formazione obbligatoria dell’Ordine e, più in generale, di aver fatto di questo tema un argomento presente nel dibattito pubblico: oggi è ritenuto normale intervenire quando ci sono cronache offensive scrivendo lettere ai direttori, chiedendo rettifiche o precisazioni, sino a segnalare le scorrettezze al Consiglio di disciplina dell’Ordine; però non possiamo non tener conto della difficoltà ad assimilare nuovi linguaggi e nuovi vocabolari da parte di redazioni dove si è costretti a lavorare sempre più di fretta. Bisogna mettersi nei panni di colleghi spesso impegnati contemporaneamente su tre quattro pezzi, e che devono farlo in tempi velocissimi per arrivare prima degli altri, soprattutto adesso che l’on line ti brucia le notizie. In questo contesto si riduce il tempo di riflessione e quindi emergono gli stereotipi. Contrastare il vecchio  automatismo culturale e imparare a riprogrammarlo, selezionando le parole giuste, è un lavoro lungo. Poi, ovviamente, dipende anche dal carattere delle persone e dalla loro disponibilità ad aprirsi a modi e punti di vista nuovi di pensare e raccontare… anche se, io credo, chi fa il giornalismo dovrebbe essere per vocazione una persona curiosa ed  aperta alle novità.

 

Eppure, in particolare il tema del linguaggio di genere continua a trovare ancora tanti detrattori, perfino tra le persone impegnate in prima linea nella lotta per i diritti umani e civili e tra le stesse donne. Mi è capitato di conoscere e parlare con tante che sono, ad esempio, le prime a rifiutarsi di declinare la propria professione alfemminile. Come lo giustifichi?

Il primo lavoro su cui mi sono impegnata dentro “Giulia” è stato mirato proprio all’uso del linguaggio, con corsi al master di giornalismo e poi corsi di aggiornamento per l’Ordine, finendo nel bel manualetto, oggi esaurito “Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano”. Il punto di partenza strumentale è che la nostra lingua  ha il maschile ed il femminile, non ha il neutro, mentre entrando nel merito si scopre che, per questioni storiche e di potere, i lavori di un certo livello sono sempre stati declinati al maschile. Ossia non si sono mai avuti problemi a dire la contadina o la cameriera, mentre i problemi insorgono di fronte a avvocata. Questo non è indifferente, perché tutto ciò che non viene pronunciato non esiste e provoca una distorsione mentale nella persona che ascolta. Se tu dici “il presidente Maria Rossi” dentro la testa dell’interlocutore si evidenza la contraddizione che la mente sana pensando che quella o è un’eccezione oppure è un errore di linguaggio. Credo anche che coloro i quali si rifiutano pregiudizialmente di utilizzare il femminile, lo facciano perché hanno delle rigidità caratteriali. Ti faccio un esempio. Sergio Lepri che oggi ha 97 anni ed è stato un grande direttore dell’Ansa per trent’anni, un record, è stato anche uno dei primi che da fiorentino – il che quindi gli “parava le spalle” sul fatto di conoscere la lingua italiana -declinava sempre le professioni al femminile e una volta ebbe un duro scontro con la senatrice Susanna Agnelli che voleva essere chiamata senatore, e lui le rispose “mi scusi ma senatore era suo padre, non lei”. Anni dopo a me capitò una cosa analoga con Emma Bonino. L’avevo intervistata per Rainews24 e, finita l’intervista, dovendo dettare il sottopancia le chiesi come volesse essere definita, per via del suo doppio ruolo visto che all’epoca era sia parlamentare che commissaria europea e lei mi rispose:  “Commissario”. Io però, tornata in redazione, dissi di scrivere “Commissaria”. Tempo dopo lei mi mandò a dire, tramite amicizie comuni, che ora utilizzava la carica al femminile perché aveva capito… Ricordo anche Maria Luisa Busi, quando tanti anni fa, nel Tg di prima serata pronunciò per la prima volta la parola ingegnera provocando un dibattito sul fatto se fosse italiano corretto o meno. Ma intanto aveva fatto fare un passo avanti alla battaglia raggiungendo milioni di telespettatori. E così via, ci sarebbero tanti altri esempi… Quello che voglio dire è che chi ha il potere sulla scelta delle parole dovrebbe usarlo e contribuire a promuovere il cambiamento senza dare troppa importanza a chi non è d’accordo.

 

Da giornalista cosa ne pensi del caso Winstein e di come sia stato vissuto in Italia?

Intanto sono grata a tutte quelle donne che ci hanno messo la faccia consentendo di far venire alla ribalta il tema delle molestie sul lavoro. Da donna, sono consapevole che questa realtà esiste in tutti gli ambiti, ma il fatto che a denunciare siano state celebri attrici di Hollywood ha favorito al tema una visibilità che altrimenti non ci sarebbe mai stata e che si è propagata in tutto il mondo, anche oltre l’ambiente dello spettacolo e diffondendosi attraverso quei racconti di persone normali nati intorno agli hasthag # metoo e # quellavoltache.

In Italia si è spesso inutilmente e malevolmente dietrologi, per cui, ad esempio, il caso di Asia Argento, che di per sé è un personaggio che già attira senza mezze misure antipatie o simpatie fortissime, ha alimentato uno pseudo-dibattito che ha raggiunto punte di beceraggine assoluta.

A me non interessa andare ad accertare la veridicità dei singoli casi, a quello semmai penseranno in caso di denuncia penale gli organi preposti, ma quello che ritengo davvero importante è che abbiano favorito l’emergere della consapevolezza diffusa della “normalità” di questo tipo di accadimenti e che anzi le molestie ci sono e ci sono sempre state. Siccome poi penso che questi personaggi di potere siano sostanzialmente anche dei pavidi, forti nel privato a tu per tu con una donna, ma che poi hanno il terrore di finire pubblicamente sbugiardati, ritengo che una cosa di questo genere possa essere molto utile anche per contenere il fenomeno. La persona compulsiva e sessuomane magari no, non la blocchi, ma tutti i vari personaggi un po’ laidi e squallidi che ne approfittano sul tram, per strada o in ufficio, e ce ne sono tanti, magari davanti a questa possibilità di non essere più impuniti si fermeranno o almeno conterranno. Poi c’è la questione culturale: ora più nessuno può pensare che queste cose accadano solo dove c’è ignoranza o degrado. Ed è ora di aprirsi ad una riflessione seria sui ruoli di genere e sulle dinamiche connesse all’esercizio del potere.

 

Anche voi giornaliste, subito dopo le donne di spettacolo, avete firmato una lettera di denuncia contro il sistema. Non pensi che più che il sistema andrebbero denunciati i singoli casi di molestia e che solo così si possa dare più forza ala voce delle donne che vorrebbero denunciare? 

Ho molta consapevolezza del mio ruolo e della sua limitatezza, quindi non dò giudizi. Il discorso che fai tu è da una parte sociale, sulle donne che hanno il diritto-dovere di denunciare, dall’altra individuale. Perché, nelle singole storie, spesso poter denunciare è un lusso che si può consentire solo chi ha un lavoro che glielo permette e che la denuncia non metterebbe a rischio, o che ha una famiglia che la tutela, o che anche ha solo la forza di farlo. Io non voglio sentirmi, né sono, onnipotente, posso parlare da giornalista e intanto raccontare bene le storie. Poi posso provare fare rete. E difatti il senso di questa lettera che abbiamo promosso anche come “Giulia” è proprio questo, fare rete con le altre donne: quelle che lavorano nel sindacato e che possono avere un rapporto di conoscenza o di forza privilegiati all’interno dei luoghi di lavoro, le donne avvocato, le stesse attrici e, in generale, tutte quelle che hanno voglia di spendersi su questa battaglia. Uomini compresi. Dobbiamo lavorare tutti assieme affinché si diffonda la consapevolezza che queste cose succedono ovunque, tutti i giorni, perché la consapevolezza diffusa crea una forza di intimidazione nei confronti di quelli che ci vorrebbero provare, ma ora sanno di essere mirino e perché così si esercita una pressione di massa su chi ha il potere di intervenire con leggi e regolamenti. Occorre un po’ tutto questo assieme per promuovere un vero cambiamento culturale.

 

Il Vaso di Pandora si occupa del trauma di abuso e di violenza,  anche e soprattutto subito in età infantile. L’impressione è che nei confronti di minori e nei casi che hanno a che a vedere con la pedofila il giornalismo faccia ancora più fatica rispetto anche al femminicidio ad uscire da un linguaggio retorico e fuorviante. Le cronache ci parlano quasi soltanto di “orchi”, e di storie ambientante nel degrado, nella povertà, nell’ignoranza, quando invece sappiamo che quello che emerge è solo la punta dell’iceberg visto che la pedofilia riguarda anche ambienti “insospettabili” e soprattutto prevalentemente le famiglie. 

Sono assolutamente d’accordo. Da questo punto di vista, come giornalisti, ci siamo un po’ fermati alla Carta di Treviso, che è del 1990, ma ricordiamoci che prima di allora era ritenuto normale fornire i dati anagrafici dei bambini. Il problema è duplice. Da una parte lo scandalismo, questo modo immondo di raccontare le storie entrando nei dettagli delle vicende per sollecitare il voyerismo del lettore, per avere un particolare in più rispetto alle cronache dei colleghi di altre testate.  Dall’altra c’è che, oggettivamente, la pedofilia è un grande rimosso proprio, credo, perché è una cosa che ci angoscia e non vorremmo esistesse: ammettere che l’umanità, apparentemente normale, possa fare queste offese è una cosa contro cui ci si ribella e dunque si tende a negarla. Ma è intollerabile e siamo in ritardo. Quanto agli ambienti cosiddetti insospettabili li abbiamo già visti in azione con violenze e femminicidi. Comunque sì, deve diventare il prossimo fronte di lotta, sono d’accordo. Una riflessione su cui far convergere tutti, uomini e donne, di qualsiasi redazione, per lavorare assieme su un tema dove la sensibilità non può che essere trasversale.

Riferimenti

  • Emerson, D. (2015). Trauma-Sensitive Yoga in Therapy. Bringing the body into treatment.
  • W.W. Norton & Company.
  • Spinazzola, J., Habib, M., Knoverek, A., Arvidson, J., Nisenbaum, J., Wentworth, R. & Kisiel, C. (2013). The heart of the matter: Com- plex trauma in child welfare. CW360° Trauma-Informed Child Wel- fare Practice.
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