Introduzione
Il trauma, oltre ad essere il vissuto di un determinato evento o di una serie di eventi ripetuti e della stessa natura, è una dimensione psicopatologica trasversale, implicata nell’eziologia e nella patogenesi di diversi disturbi psichiatrici e molto spesso disagio nucleare degli stessi.L’umanità ha cominciato a comprendere l’importanza degli eventi traumatici nello sviluppo di patologie psichiatriche agli inizi del XX secolo, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale, con quel che all’epoca venne chiamato “shell shock” o shock da granata (Myers, 1915). All’epoca però la psicofarmacologia non era stata sviluppata e i rimedi erano tutti legati ad interventi psicosociali.
L’attuale classificazione nosografica, che si basa sul Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5:American Psychiatric Association, 2013), alla quale converge anche l’ultima versione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11), concentra però la trattazione del trauma all’interno di una categoria diagnostica, il disturbo post traumatico da stress (PTSD). Nella prima edizione del Manuale, che nasce nel 1952, il PTSD era completamente assente, mentre nella seconda, del 1968, era presente un generico riferimento alle categorie dell’ICD-8, che annoveravano una sezione di Incidenti, Avvelenamenti e Violenza come causa di danno. Fu lo scalpore suscitato dalla guerra del Vietnam e dalla sintomatologia manifestata da moltissimi veterani al rientro in USA a spingere gli psichiatri americani a creare una diagnosi specifica per affrontare il problema emergente. Dunque il PTSD è stato inserito tra i disturbi d’ansia nella terza edizione del DSM edita nel 1980 ed è rimasta in questa categoria diagnostica fino alla quarta edizione revisionata nel 2000. Con la quinta edizione del Manuale, il PTSD è stato collocato in un nuovo capitolo, denominato “disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti”. All’interno di questo gruppo sono compresi disturbi legati al trauma e disturbi legati a stressor (qualunque stimolo generante stress nell’organismo bersaglio). I disturbi che il DSM-5 raggruppa nella suddetto capitolo sono: il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito, il disturbo post-traumatico da stress (PTSD, che comprende anche il PTSD dei bambini < 6 anni), il disturbo da stress acuto, i disturbi dell’adattamento (specificando se con umore depresso, con ansia, con ansia e umore depresso misti, con alterazione della condotta, con alterazione mista dell’emotività e della condotta, o non specificati), il disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti con altra specificazione e il disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti senza specificazione. La fisiopatologia ipotizzata, per quanto possa condividere sentieri neurobiologici comuni, differisce da disturbo a disturbo e conseguentemente anche l’approccio terapeutico ai disturbiche compongono il corpus dei disturbi psicologici correlati al trauma, potrà differire. Ad oggi nella letteratura internazionale non sono presenti evidenze sulla farmacoterapia dei disturbi specifici dell’infanzia né di quelli senza specificazione e nemmeno di quelli considerati transitori, quali i disturbi dell’adattamento e da stress acuto; una maggiore ricerca e produzione scientifica è stata dedicata piuttosto al solo PTSD dell’adulto.
I trattamenti farmacologici sperimentati in prima linea nel PTSD sonoi farmaci antidepressivi, data l’ampia comorbidità con il disturbo depressivo maggiore e con i disturbi d’ansia (in particolare disturbo d’ansia generalizzato e il disturbo di panico), tutti altamente responsivi a questa classedi farmaci.La terapia antidepressiva, com’era ipotizzabile, ha mostrato una certa efficacia nella riduzione dei sintomi depressivi ed ansiosi che fanno parte del corteo sintomatologico del PTSD, rivelandosi però inattiva sui sintomi specifici del PTSD, quali l’attivazione emotiva, secondaria all’intrusione improvvisa dell’evento traumatico nell’ideazione e nella percezione del paziente, l’ipervigilanza, i flashback, gli incubi, l’evitamento, il disagio nella sfera professionale e relazionale e le strategie fallimentari che il paziente adotta nel tentativo di lenire la propria sofferenza, tra cui l’assunzione di alcol o sostanze stupefacenti.
Gli antidepressivi sono una classe eterogenea di farmaci. Il loro meccanismo principale d’azione è l’aumento delle trasmissioni sinaptiche serotoninergica e noradrenergica, ma anche dopaminergica. Studi scientifici mostrano come questi neurotrasmettitori siano “down-regolati”(ipo-espressi) in alcuni disturbi ansiosi e depressivi, mentre non si ha contezza della loro effettiva espressione nei pazienti affetti da PTSD. I primi antidepressivi ad essere sviluppati sono stati negli anni ‘50 del secolo scorso, gli inibitori delle monoamino ossidasi (IMAO) e i triciclici (TCA), che in origine erano intesi a trattare le psicosi come la schizofrenia, ma che successivamente si sono rivelati in possesso diproprietà antidepressive. Delle IMAO la sola molecola utilizzata nel trattamento del PTSD è stata la fenelzina, poi risultata inefficace (Lerer et al., 1987). La fenelzina è un inibitore sia dell’isoenzima A che B della MAO e il suo legame alla molecola della MAO tende ad essere persistente, tanto da meritare il termine di inibitore “irreversibile”. Simile il discorso per la tranilcipromina, l’IMAO più frequentemente utilizzato in Italia, per l’isocarbossazide e per l’epatotossicanialamide. L’irreversibilità del legame con l’enzima MAO di questi IMAO sembra essere alla base dell’effetto avverso che più limita l’impiego di questi farmaci, cioè un repentino rialzo pressorio generato dall’associazione con alcuni alimenti, che può avere esiti fatali. Per questo, sono stati sintetizzati farmaci selettivi per l’isoenzimaA con legame reversibile, come la moclobemide,che ha avuto una certa diffusione come antidepressivo negli anni Ottanta-Novanta ed è stata sperimentata nel PTSD. Il farmaco ha avuto un supporto teorico da sperimentazioni su animali e da un primo trial in aperto (Neal et al., 1997), ulteriormente rinforzato da risultati positivi in un altro trial in doppio cieco (Onder et al., 2006), tanto da essere preso in considerazione tra le opzioni possibili per il trattamento del PTSD (Davis et al., 2015). Tra iTCA, invece, l’imipraminaè risultata proponibile e l’amitriptilina potenzialmente dannosa (Charney et al., 2018). Gli altri farmaci del gruppo, come la doxepina e la clomipramina, non sono stati sperimentati nel PTSD, che,d’altra parte,è stato introdotto come entità nosografica solo nella terza edizione del DSM nel 1980. Di lì a breve ci sarebbe stata l’introduzione degli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI: la fluoxetina, la fluvoxamina, la paroxetina, la sertralina, il citalopram e l’escitalopram) e degli inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (SNRI: la venlafaxina e la duloxetina);entrambe queste classi di antidepressivi hanno trovato un’ampia sperimentazione nel PTSD. Tra questi farmaci la sertralina, la paroxetina e la venlafaxina, hanno ottenuto la raccomandazione delle linee guida VA/DoD del U.S. Department of Veterans Affairs (2017), mentre per il citalopram l’evidenza è contrariaall’utilizzo e per l’escitalopram nulla. Anche altre linee guida, quelle dell’American Psychiatric Association (2004-2010) e dell’American Psychological Association (2017) raccomandano gli stessi antidepressivi, mentre le linee guida europee (NICE, 2018) escludono la paroxetinadagli antidepressivi consigliati, a causa dei possibili fenomeni da sospensione.D’altra parte, l’approvazione da parte della Food and Drug Administration per il trattamento farmacologico del PTSD è stata ottenuta esclusivamente dalla paroxetina e dalla sertralina (Kelemendi et al, 2016). Entrambe le molecole si sono mostrate capaci di ridurre i sintomi del PTSD, ma raramente hanno mostrato tassi di risposta superiori al 60% e non oltreil 30% dei pazienti hanno raggiunto la remissione clinica (Berger et al., 2009).Va inoltre considerato che SSRI e SNRI non risultanosempre tollerabili a causa degli effetti avversi (disfunzioni sessuali, aumento di peso, disturbi del sonno), che ne limitano ulteriormente l’utilizzo.Da 15 anni a queste parte, le raccomandazioni per la farmacoterapia del PTSD in genere e,in particolare relativamente all’utilizzo degli antidepressivi, sono rimaste pressochéinvariate, a dimostrazione dello scarso investimento scientifico volto alla comprensione della fisiopatologia del PTSD e alla conseguente sperimentazione farmacologica (Krystal et al., 2017).
Relativamente ad altri farmaci antidepressivi non sono state diffuse specifiche raccomandazioni all’utilizzo, ma indicazioni di possibile utilità, mancanza di evidenza di utilità o addirittura evidenza contraria. Per l’antagonista specifico dei recettori della noradrenalina e della serotonina (5-HT2A e 5-HT2C) mirtazapina, l’evidenza globale è quasi nulla, anche se questo farmaco ha mostrato di poter ridurre gli incubi in pazienti affetti da PTSD. D’altra parte, ci sono anche evidenze con la stessa mirtazapina della comparsa di incubi in pazienti affetti da depressione maggiore, per cui la reale utilità di questa molecola nel trattamento del PTSD non è stata ancora chiarita. Per l’altro farmaco che ha preceduto lo sviluppo della mirtazapina e che agisce in maniera analoga, cioè la mianserina, non esiste tuttora evidenza di efficacia. Anche l’inibitore della ricaptazione della noradrenalina e della dopamina bupropione non ha evidenziato particolare utilità nel PTSD. Neanche per la maprotilina, un farmaco tetraciclico con spiccate proprietà adrenergiche, un meccanismo che sembra implicato nella patogenesi del PTSD, esiste sufficiente evidenza, esso è tuttavia compreso tra le possibili opzioni di recenti linee guida (Davis et al., 2015). Il trazodone,in associazione agli SSRI ha portato a un miglioramento della sintomatologia depressiva comorbida al PTSDe ha mostrato di avereun’azione positiva sugli incubi notturni;è stato comunque sconsigliato in monoterapia (Shin&Saadabadi, 2019). Qualche evidenza favorevole è presenteanche per l’analogo del trazodone,il nefazodone, un prodotto fenilpiperazinico dotato di proprietà inibenti la ricaptazione della serotonina.
Gli anticonvulsivi
I farmaci stabilizzanti anticonvulsivi, come la lamotrigina, la carbamazepina, il pregabalin, il gabapentin, la tiagabina, il topiramato e il valproato,nei pochi studi scientifici dedicati al loro impiego nel trattamento del PTSD, sono risultati inefficaci o da evitare. D’altro canto l’esperienza clinica ha mostrato come l’utilizzo dialcune di queste molecole (valproato, lamotrigina, carbamazepina)possa portare a un contenimento dell’impulsività e dell’ipervigilanza, agendosulla disregolazione emotiva, mentre l’uso di altre, gli alfa-2 ligandi pregabalin e gabapentin, attraverso l’azione diretta sul dolore neuropatico, spesso presente nei pazienti affetti da PTSD, contribuirebbe a ridurre l’impatto dello stimolo stressante sulla memoria e sull’umore e smusserebbe il meccanismo di condizionamento della paura, attraverso un «sollievo» diretto per la memoria corporea.
In merito agli antipsicotici sono state sperimentate le molecole di II generazione in particolare olanzapina e risperidone con qualche risultato sui disturbi comorbidi di tipo psicotico, con funzione adiuvante in senso antidepressivo, o per trattamento del pensiero ruminativo, spesso presente nei soggetti colpiti da trauma.Proprio per la possibile utilità in questo senso il risperidone in aggiunta alla terapia con SSRI è stato recentementeraccomandato dalle linee guida europee (NICE 2018).
Le benzoadiazepine possono essere utilizzate con efficacia in alcuni pazienti se impiegate per brevi periodi, così da evitare i fenomeni di tolleranza, la facilità di assuefazione e la possibile dipendenza fisica e psicologica. In tal senso queste molecole sono assolutamente controindicate in pazienti con condotte tossicofiliche, che sfortunatamente sono diffuse tra chi soffre di PTSD.
I farmaci non psichiatrici
Altre categorie farmacologiche “non psichiatriche”utilizzate nel trattamento del PTSD sono ifarmaci alfa- e beta-adrenolitici, che dovrebbero agire sulla riduzione dell’ipervigilanza, sui flashback e sui sintomi dissociativi a partire dalla riduzione degli effetti somatici periferici. Tra questi l’antipertensivo alfa1 bloccanteprazosina è stato ampiamente usato nel recente passato nel trattamento degli incubi notturni(Charney et al., 2018), ma attualmente riconsiderato come inefficace (Raskind et al, 2018). Tra gli alfa2A adrenostimolanti, la guanfacina, non è considerata utile, mentre la clonidinasi è mostrata capace di bloccare il consolidamento della rievocazione dei ricordi sgradevoli in studi sulle reazioni da stress effettuati su modelli animali (Gamache, Pitman, & Nader, 2012). Inoltre la stessa molecola è stata impiegata efficacemente per la gestione dell’attivazione emotiva conseguente all’astinenza da oppiacei, condizione che condividela sintomatologia periferica delle intrusionicon i disturbi correlati altrauma. Tra i beta-adrenolitici invece spicca il propranololo,che ha la capacità di ridurre i sintomi autonomici (tachicardia, tremore), “abbassandoil volume” della memoria corporea traumatica e che in soggetti adulti sani si è mostrato più efficace del placebo nel bloccare la fissazione dei ricordi emotivi (Lonergan et al, 2013). Il propranololo potrebbe agire sulla componente anticipatoria delle intrusioni traumatiche, così come interviene efficacemente nel disturbo da attacchi di panico o nelle fobie. La sua capacità sarebbe quella di ridurre le anticipazioni negative attraverso un effetto cardio-deceleratore, che bloccherebbe sul nascere i correlati periferici del trauma.
La trasmissione glutamatergica
La fisiopatologia del trauma e del PTSD è ancora avvolta nel mistero, ma ciò che emerge dalla ricerca di base è che una vulnerabilità della corteccia cerebrale prefrontale mediale, quella connessa con l’ippocampo anteriore, sia alla base dello sviluppo dei sintomi. La debolezza prefrontale, congiuntamente con un assottigliamento dell’ippocampo anteriore, e la ridotta connettività ippocampale risulterebbe in un rafforzamento del richiamo degli stimoli fobigeni; viceversa, il potenziamento attraverso gli antidepressivi della plasticità sinaptica in sede ippocampale faciliterebbe l’estinzione del ricordo traumatico, oppure ridurrebbe il suo impatto in presenza dello stimolo fobigeno (Abdallah et al., 2017). Inoltre, in questo contesto sarebbe importante la trasmissione glutamatergica:il glutammato è un neurotrasmettitoreeccitatorio che è contenuto nelle cellule piramidali e nella maggior parte delle sinapsi cerebrali, controbilanciando l’attività del maggiore neurotrasmettitore inibitorio, l’aminoacido gamma-idrossibutirrato (GABA). Esperimenti su animali hanno mostrato comefarmaci in grado di ridurrela trasmissione glutamatergica, inibendo il suo recettore NMDA, aumentino l’estinzione della paura (Sartori eSingewald, 2019), così come anche i farmaci capaci di incrementare la trasmissione GABAergica, come i neurosteroidi(Rasmusson et al., 2017). L’inibitore NMDA ketamina, che è una sostanza psicotropa con elevato potenziale dissociativofrequentemente abusata, è stata recentementeutilizzata in alcuni Paesi come trattamento antidepressivo in caso di grave farmaco-resistenza ein presenza di elevato rischio di suicidio. Ultimamente la ketamina è stata proposta come trattamento del PTSD (Abdullah et al., 2017), ma non sono ancora disponibili risultati sufficienti relativi a tale sperimentazione;sono d’altro canto noti i rischi connessi al consumo di questa sostanza, se anche a scopo terapeutico.La 3,4-metilenediossimetamfetamina (MDMA) o ecstasy è un altro farmaco utilizzato come sostanza d’abuso per le sue proprietà empatogene; recentemente ne è stato proposto l’utilizzo nel PTSD per facilitare il rapporto medico-terapista e come coadiuvante la psicoterapia (Sessa, 2017), ma come per la ketamina, è necessaria essere cauti nell’impiego di sostanze stupefacenti a scopo terapeutico.Altri bersagli farmacologici recentemente individuatiincludono i recettori cannabinoidi.La scoperta di un deficit del sistema dei cannabinoidi endogeni nei pazienti con PTSD può permettere di inquadrare la tossicofilia da cannabis,comune in questi pazienti,come un tentativo di autocura e contemporaneamente può stimolare la ricerca volta allo sviluppo di farmaci attivi su questo sistema (Hill et al., 2018).Un approccio ulteriore al trattamento del PTSD potrebbe essere rappresentato in futuro dallo sviluppo disostanze mirate a controllare i geni coinvolti nel disturbo, ma si tratta di un campo che necessita ancora di ampliare e approfondire le ridotte conoscenze scientifichead oggi disponibili sull’argomento (Bannerjee et al., 2017).
Conclusione
Concludendo, le più complete e recenti revisioni della letteratura (Davis et al., 2015; Charney et al., 2018) concordano nell’evidenziare come gli interventi psicofarmacologici sulla “dimensione trauma” mostrino effetti terapeutici piuttosto contenuti,con effectsize esiguo e come risultino di limitata utilità quando non associati a percorsi psicoterapeutici. In tal senso è necessario tenere conto cometutte le linee guida internazionali identifichino nella psicoterapiailtrattamento di elezione per il PTSD. L’apporto farmacologico può essere ritenuto un ausilio al trattamento di questa categoria di disturbi; solo ulteriori studi di approfondimento sul meccanismo fisiopatologico alla base del trauma, potranno favorire, in futuro, lo sviluppo di strumenti farmacologici mirati emaggiormente efficaci. Ad oggi l’intervento ideale è rappresentato dall’associazione della psicoterapia con un trattamento farmacologico personalizzato per ogni paziente, che possa ridurre il volume di una sintomatologia unica e diversamente penosa per ciascun individuo affetto.
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A cura della dr.ssa Ilaria Cuomo, Psichiatra.